«È un termine del quale bisogna
forse giustificarne particolarmente l’uso, quello dei Fedeli d’Amore»,
scrive Henry Corbin nella sua Immaginazione creatrice nel sufismo di
Ibn ‘Arabî. Lo spiegherà nella sua presentazione del Vademecum dei
Fedeli d’Amore di Sohravardî: «Quanto alla parola ‘oshshâq
(plurale di ‘âshiq), si tratta letteralmente di quelli presi
dall’amore, gli amanti. È l’espressione correntemente impiegata per
designare i mistici, poiché la loro spiritualità è essenzialmente una
mistica d’amore» e «Fedeli d’Amore è il nome che si dettero alcuni
compagni di Dante. È anche la qualifica che meglio corrisponde ai nostri
mistici».
La storia dei Fedeli d’Amore è
una storia d’Oriente e d’Occidente, senza che si possa valutare veramente
le influenze eventuali di una tradizione sull’altra: «Alcuni hanno pensato
che, oltre che dalle influenze gnostiche (la nozione di Sofia, le ipostasi
femminili della Saggezza e dello Spirito Santo, ecc.), i «Fedeli
d’Amore» dovevano essere stati influenzati da certi aspetti del
Sufismo islamico». Ma questa questione non ha che un interesse secondario,
puramente storico. Si tratta in ogni caso della stessa tradizione.
Ciò che importa è tenere a mente, come Henry Corbin sottolineerà ogni
volta che parlerà dei Fedeli d’Amore, che l’Oriente di cui si tratta
nell’esperienza dei Fedeli d’Amore, che siano orientali od occidentali,
non è l’Oriente geografico, ma l’Oriente metafisico, cioè, in
termini di geosofia, il Mondo dell’Anima o Oriente, da una parte, e
la Terra supraceleste o Oriente dell’Anima, dall’altra parte.
In compenso ciò che sappiamo
generalmente dei Fedeli d’Amore in Occidente si limita a ciò che ne dice
Dante nella sua Vita Nova o Cavalcanti nelle sue Rime.
La menzione dell’opera di Luigi
Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei « Fedeli d’amore»,
ritorna frequentemente nell’opera di Henry Corbin. È difficile immaginarsi
oggi la risonanza che ebbe quest’opera pubblicata a Roma nel 1928, che
attirò l’attenzione sia di Julius Evola che di René Guénon. A questo
riguardo ci si potrebbe chiedere se Henry Corbin abbia avuto conoscenza
dell’Ordine occidentale dei Fedeli d’Amore da altre fonti che non siano
quest’opera, che ha sollevato il velo in Occidente su ciò che non era noto
fino ad allora che «in ambienti molto esclusivi», come disse Julius Evola,
senza specificare d’altro canto quali.
Comunque sia, la tesi
dell’opera di Luigi Valli è servita da rivelatore e da punto di partenza
per una riflessione sull’Ordine dei fedeli d’amore.
Qual è questa tesi?
«Le diverse «dame» celebrate
dai poeti, scrive René Guénon, che si rifanno alla misteriosa
organizzazione dei «Fedeli d’Amore», dopo Dante, Cavalcanti e i loro
contemporanei fino a Boccaccio e Petrarca, non sono affatto delle donne
che hanno vissuto realmente su questa terra; sono tutte, sotto nomi
diversi, la sola e la stessa «Dama» simbolica che rappresenta
l’intelligenza trascendente (Madonna Intelligenza di Dino Compagni)
o la Sapienza divina».
A proposito di Ibn ‘Arabî,
Henry Corbin non dirà cose diverse: «Colei che fu per Ibn ‘Arabî alla
Mecca ciò che fu Beatrice per Dante, fu, certo, una giovane donna reale,
ma nello stesso tempo, come tale, fu anche «in persona» una figura
teofanica, la figura di Sophia aeterna (la stessa figura che alcuni
compagni di Dante invocavano come Madonna Intelligenza)». È lei che
viene chiamata Spirito Santo in altri contesti.
Inoltre, che si trattasse di
Henry Corbin, di René Guénon o di Julius Evola, sono gli uni e gli altri
unanimi nel respingere «le interpretazioni estetiche e realistiche che
vogliono riportare tutto a delle donne reali e a delle esperienze di
semplice amore trasposto, sublimato e messo in iperboli dal poeta». In
compenso Julius Evola contesta, per delle ragioni specifiche della sua
esperienza spirituale, «le interpretazioni puramente simboliche», come
quella di Guénon o di Corbin «che fanno entrare in gioco delle pure
astrazioni dottrinali o delle personificazioni di una Gnosi («la Sapienza
Santa»), concepita come un potere d’illuminazione, ma senza alcun rapporto
reale con la forza della femminilità».
Vediamo cosa ne dice Henry
Corbin.
A più riprese fa notare la
distinzione operata da Rûzbehân Baqlî «tra i pii asceti o sufi che non
hanno mai incontrato sulla loro via l’esperienza dell’amore umano e i
Fedeli d’Amore per i quali l’esperienza di un culto d’amore votato a
un essere di bellezza è l’iniziazione necessaria all’amore divino e ne
resta inseparabile.
«Ciò che ho per Sofia, è della
religione – non dell’amore. L’amore assoluto, indipendente dal cuore,
fondato sulla fede, è religione», scriveva Novalis in un frammento
filosofico ben noto del 1797.
La storia dei Fedeli d’Amore è
innanzitutto la storia di una religione divina, che non è in alcun
modo diretta contro la religione esteriore – «La dottrina dei «Fedeli
d’Amore», ricorda René Guénon, non era per niente anticattolica» – ma, per
riprendere un’espressione di Henry Corbin, è una religione «in cui ogni
essere umano è orientato alla ricerca della sua guida personale».
Non si può quindi considerare
la religione dei Fedeli d’Amore un’esperienza «eterodossa», e ancor meno
un’esperienza mistica.
È una tradizione iniziatica:
«Le esperienze che sono riportate, scrive Julius Evola, a proposito dei
Fedeli d’Amore, devono essere riferite ai Misteri della Donna;
avvenivano essenzialmente a un livello ipersensibile ed erano provviste di
un carattere iniziatico». E lo è nel senso che questa tradizione non
pretende di sfociare nel paradiso terrestre, ma addirittura nel paradiso
celeste, in altri termini non all’Oriente, ma all’Oriente
dell’anima, e ancora più al di là, all’Oriente dell’essere,
all’Essere, all’Uno unificante.
Che la religione dei Fedeli
d’Amore d’Oriente e d’Occidente sia anche una religione segreta, è ciò che
non era sfuggito a Henry Corbin: «Gli ‘Oshshâq mistici iraniani e i
«Fedeli d’Amore», compagni di Dante, professano una religione segreta che,
pur essendo priva di denominazione confessionale, non è per questo meno
comune a tutti loro». Julius Evola, da parte sua, ne parla come di un
«Ordine segreto di iniziati».
Infine, se quest’ultimo afferma
che «le numerose dame cantate dai poeti, a partire da Dante, sotto
qualsiasi nome fossero conosciute, erano solamente una, l’immagine della
Santa Sapienza, della Gnosi, cioè di un principio d’illuminazione, di
salvezza, di conoscenza trascendente», riconosce però anche che «il ruolo
che giocava la donna reale in tali esperienze rimane una questione
irrisolta».
Per Henry Corbin «le Figure
contemplate dai «Fedeli d’Amore» potevano benissimo essere delle Figure
concrete e terrestri, e tuttavia non essere visibili che da loro
soltanto.», o ancora «ciò che vedevano i Fedeli d’Amore era sia l’Angelo
Intelligenza – Sapienza, sia una certa figura terrestre, ma questa
simultaneità non era reale e visibile che per ciascuno di loro».
Ci si trova qui in presenza di
uno tra i tanti interrogativi che rimangono a proposito dei Fedeli
d’Amore.
*
«Si sarebbe tentati di
concludere, secondo Corbin, che il «mondo delle immagini» offre all’uomo
il più alto grado di contemplazione dell’Essere divino che possa
conoscere. Una contemplazione soprattutto imperfetta: per sublime che sia,
la teofania sotto forma di immagine non è meno formale e non
saprebbe di conseguenza riflettere l’Increato». A questa riflessione di
Claude Addas, Henry Corbin aveva risposto in anticipo affermando: «Non è
sicuro che esista il dilemma tra incontro di un Dio supremo e personale e
esperienza di un qualche Assoluto spersonalizzato o impersonale».
Tuttavia si oppone volentieri e
non senza ragione l’esperienza spirituale di Mansûr Hallâj, il «martire
mistico dell’Islam», come lo chiamava Louis Massignon, a quella
dell’«Unicità dell’Essere» (Wahdat al-wujûd) secondo Ibn ‘Arabî. Vi
si aggiungerà quindi la posizione di Henry Corbin per cui è «la
meditazione angelica che è la forma stessa, necessaria e ogni volta unica,
della rivelazione della deità nascosta e inaccessibile … ».
C’è quindi una dimensione
mistica (ma non nel senso in cui l’intendeva René Guénon) dove è questione
di un «Dio conosciuto, Dio amato», secondo l’espressione di Robert Amadou,
così come della «bellezza senza volto del Cristo». È così che per Louis
Massignon «non è che attraverso la sofferenza mortale della prova
desiderata che egli [il santo] può accedere all’Unione con l’Uno,
all’Essenza divina disarmata, spogliata, nuda».
C’è una dimensione «teosofica»
nella quale si tratta dello stesso Dio conosciuto e amato,
ma che non può essere conosciuto e amato che attraverso «teofanie», cioè
per mezzo di una Figura, o Forma umana. È questa la testimonianza di
Rûzbehân Baqlî, per il quale «il senso nascosto della Forma umana è la
teofania primordiale: Dio che si rivela a sé stesso nella Forma adamitica,
l’Anthropos celeste evocato nella pre-eternità, e che è la sua
propria immagine».
Infine vi è una dimensione
estatica per la quale, come dice il Trattato dell’Unità di Ibn
‘Arabî a proposito dell’essere reale: «Vede la Sua esistenza attraverso la
Sua esistenza».
Trattandosi dei Fedeli d’Amore,
se si può affermare che non seguono la via mistica, si iscrivono
sicuramente in una o nell’altra di queste due ultime dimensioni. Ma solo
un fedele d’amore potrebbe dirimere la questione. Si resterà allora
modestamente a una certezza, cioè che nell’Ordine della Fedeltà d’Amore è
proprio il soggetto dell’esperienza che possiede la qualità maschile:
«Fintanto che l’anima gioca il
ruolo della donna come «fidanzata» dello sposo celeste, in tutta questa
letteratura (…), nella leggenda e nel mito, i ruoli si invertono, perché è
il soggetto dell’esperienza che possiede la qualità maschile».
È la ragione per cui
l’esperienza dei Fedeli d’Amore non può essere di tipo mistico ed è senza
dubbio un’esperienza teosofica, nel modo in cui ne parla la Cabala
«teosofica», per distinguerla dalla Cabala «estatica». Ora, la Cabala
«teosofica», ispirata dallo Zohar, è detta discendente,
perché tende ad un’unificazione dell’uomo e della «Presenza divina», la
Shekhinà, all’immagine dell’unione del Santo, sia Egli Benedetto, e della
Shekhinà.
L’uomo
→
Shekhinà
→
Dio
D’altra parte «tocca all’uomo
di essere «maschio e femmina», sempre, affinché la sua fede possa restare
inalterata e la Presenza divina [la Shekhinà] non lo abbandoni mai.
Potresti chiedere: che ne è dell’uomo che parte per un viaggio e che,
lontano dalla sua donna, cessa di essere «maschio e femmina»? Quest’uomo,
prima di mettersi in cammino, mentre è ancora «maschio e femmina», deve
pregare Dio perché mandi su di lui la Presenza del suo Maestro. Quando ha
pregato e reso grazie, mentre riposa su di lui la Presenza divina, allora
può partire perché, grazie alla sua unione con la Presenza divina, è
adesso maschio e femmina anche in campagna così come lo era in città».
La sposa
→
Lo sposo
→
Shekhinà
L’esempio dello Zohar ci
porta quindi a pensare che l’esperienza della Fedeltà d’Amore è proprio
un’esperienza «teosofica»:
«Due non lo sono più, ma Enrico
e Matilde / Sono uno unito all’altra in una stessa immagine», scrive
Novalis nell’Enrico di Ofterdingen.
Comunque nulla lascia supporre
che ciò si limiti all’esperienza delle teofanie formali e che il
fedele d’amore, cioè l’adepto della Fedeltà amorosa che ha raggiunto
l’Oriente dell’anima, non possa conoscere un’esperienza del tipo delle
teofanie informali. È proprio il contrario che ci insegna
l’esempio, questa volta, di Ibn ‘Arabî nelle Illuminazioni della Mecca.
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